RESTANY

 PIERRE RESTANY

ARGILLIA PRESS

Argillia non ha bisogno di essere spiegata. Argillia è un pretesto. Il nome è di un regno, di un territorio, di uno stato immaginario e questo mito diventa realtà attraverso l’estroversione di elementi esterni che caratterizzano uno stato cioè per esempio un’ambasciata, una bandiera… e un’agenzia di stampa.


MuseoTeoNetZine # 2.5 /2003


VOI MI STATE DIPINGENDO CON IL MICROFONO

«Dunque il problema è un problema semplice a questo livello: come dare all’informazione, diciamo, una dimensione diversa. Credo che il problema è un problema un po’ di tutti noi, non solo vostro, dell’interlocutore. So che avete dei mezzi limitati, dunque sarebbe totalmente utopico di chiedervi di creare un altro tipo, diciamo, di circuito informativo.  Siete legati proprio alla modestia dei vostri mezzi. Ma credo che la cosa interessante risiede proprio, diciamo, nell’ambiente psicologico del contatto. Un continuo contatto per esempio molto diverso da quello che potrei avere con una radio nazionale o un mass media di tipo più ufficiale, più direttamente professionale.  È proprio, se posso dire, lo spazio fra le parole del nostro discorso che è interessante, perché questo è piena virtualità.  Potrei dirti in questo momento tutte le cose che possono passarmi proprio, insomma, nel cervello. Non lo faccio, evidentemente... Però questo mi da un’altra carica espressiva. Quindi, avevo mangiato un po’ troppo, bevuto un po’ troppo a questo pranzo, e stavo per addormentami. A un certo momento, vedi, una questione tua mi ha svegliato, tutto sommato, perché la metà di questa intervista l’ho fatta, diciamo così, in dormiveglia. Queste cose sono interessanti perché creano questo tipo di presenza. Vedi questa trasmissione che facciamo in questo momento è direttamente o indirettamente una specie di autoritratto. Mi capisci, il microfono mi sta dipingendo, mi sta registrando a livello proprio strutturale. Le mie parole, il mio atteggiamento e la mia fatica fisica, il mio modo di parlare, di fumare, di addormentarmi, di cercare le parole creano proprio una presenza, se posso dire, a livello proprio auditivo. Finalmente il microfono vostro mi ha reso narcisista, sono in pieno narcisismo in questo momento, un narcisismo controllato».

La seconda parte del colloquio è rimasta inedita fino alla pubblicazione – con il titolo Sociologia Selvaggia – sul numero del trentennale di Museo Teo Art Fanzine nel 2020 MTAF #  44 - 2020

[SOCIOLOGIA SELVAGGIA]

«SZ: è diventato uno specchio il microfono?

PR: Sì è diventato uno specchio ma uno specchio diciamo anche traditore perché è uno specchio dei retropensieri e non dei pensieri diretti, è piuttosto una coscienza. Il microfono è diventato più di uno specchio, è diventato una coscienza e sto dialogando con la mia coscienza.

È interessante studiare questo tipo di discorso perché è in atto una specie di catena di sviluppi continui.

Pensavo anch’io all’inizio di parlarvi di Argillia o di parlarvi di cose che sono strettamente legate alla mia attività professionale e, pian pianino il discorso ha cambiato dimensione e siam arrivati a questo tipo diciamo di autoespressività libera, di sfogo controllato

questo per me è interessante e vale come testimonianza quasi quasi tecnica. Sarebbe interessante proprio di studiare qual è la dimensione di autoestroversione nel discorso che può essere proprio suscitata e sviluppata attraverso questo tipo di media e questo potrei essere un problema da studiare per voi, perché sono sicuro che l’atteggiamento delle persone che voi potete incontrare è certamente molto diverso della gamma normale dei rapporti espressivi a livello dei mass media

È un po’ come una specie di sociologia selvaggia. Come esiste il cinema-verité può esistere anche la sociologia selvaggia, e voi fate della sociologia selvaggia, liberandomi a livello del discorso

SZ: Ti abbiam fatto diventare un artista allora?

PR: E bè sì, devo ringraziarvi per questo, perché sono stato, tutto sommato sono stato… vi ringrazio fino a un certo punto, perché credo che anche il mio modo di concepire il mio mestiere è certamente in questo senso abbastanza impegnativo.

Ho avuto la fortuna, o magari l’ho voluto, ho voluto veramente fare totalmente coincidere il mio mestiere con il mio modo di vivere e questo evidentemente mi crea dei problemi, ma mi dà anche soddisfazione e dà anche al mio discorso una certa dimensione una certa colorazione, una certa intensità e un certo impegno

È chiaro che un critico d’arte è una personalità ambigua nel mondo della cultura. Nessuno nasce critico d’arte, come può nascere, che so, marinaio, o medico, non è una vocazione innata la critica d’arte, è una vocazione residuale e attraverso proprio diciamo il destino individuale, le avventure del destino, che uno diventa critico d’arte. Un critico d’arte può essere un cattivo poeta, un cattivo pittore, un professorino e così via… o un giornalista che insomma ha invaso questo territorio perché il direttore gli ha dato proprio questo tipo di incarico. La critica d’arte è dunque più di un mestiere una specie di colorazione, una specie di nuance, una specie di dimensione dell’essere al livello di sensibilità, di impegno diciamo culturale, nel microambiente culturale il critico d’arte è una specie di registratore, di spugna più o meno permeabile, più o meno sensibile.

Io sono stato molto cosciente di questo tipo di problema, avendo una formazione universitaria la mia tentazione era evidentemente, di insegnare l’arte.

Non per fare il puro, anche quando le università americane pagavano bene, l’ho sempre fatto così quasi quasi a singhiozzo, per periodi brevi. La cosa che mi interessava era proprio nel problema della critica, data la mia formazione e la mia cultura era la possibilità di identificare totalmente un mestiere con un modo di vivere, e lo sto facendo adesso d’altronde, attraverso questo tipo di intervista».